Questo modo di dire sta cadendo in disuso, forse perché ultimamente ci piace molto prendere in prestito dagli inglesi le parole, ma non la cucina! Tuttavia è sintomatico di come nella lingua italiana cibo e linguaggio siano strettamente e intimamente legati.
Lo fa notare il filosofo Andrea Tagliapietra in un suo articolo:
Noi abbiamo 'appetito' di conoscenza, 'sete' di sapere o 'fame' d'informazioni. Noi 'divoriamo' un libro, 'facciamo indigestione' di dati, 'abbiamo la nausea' di leggere o di scrivere, non siamo mai 'sazi' di racconti, 'mastichiamo' un po' di inglese, 'ruminiamo' qualche progetto, 'digeriamo' a fatica alcuni concetti, mentre 'assimiliamo' meglio certe idee piuttosto che altre. Noi ci 'beviamo' una storia soprattutto se nel narrarcela sono state usate parole 'dolci', invece di condirla con 'amare' considerazioni, con battute 'acide' o 'disgustose', o, peggio, con allocuzioni 'insipide' e 'senza sale'. Non a caso le storielle più 'appetitose' sono quelle infarcite di aneddoti 'pepati', di descrizioni 'piccanti' e, vuoi anche, di paragoni 'gustosi'.
(Articolo pubblicato su "XAOS. Giornale di confine, n.1, marzo-giugno 2005", dal titolo "La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare". Neretti redazionali)